Gruppo di Lettura – ottobre/novembre 2017

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Nel link è presente un commento di Valeria Gramolini.


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Nel link è presente un commneto di Valeria Gramolini.

 

One Response to “Gruppo di Lettura – ottobre/novembre 2017”

  • Valeria scrive:

    SINGUE’ SABOUR – Pietra di pazienza
    di ATIQ RAHIMI
    (un commento di Valeria. G.)

    Mi rendo conto che un libro così importante non può essere liquidato con un commentino da quattro soldi. Infatti le questioni che solleva sono grandi, profonde…ed affondano le radici in tempi lontani e dunque occorrerebbero conoscenze da esperti per poterne discutere. Potremmo approfondire la ricerca con ulteriori letture o magari sollecitare l’intervento di un autentico conoscitore di quelle culture. Non sarebbe male addentrarci negli universi mentali di quelle popolazioni con l’aiuto di una guida esperta, tuttavia, in mancanza di ciò, dovremo accontentarci di quel che si dice e di quel che si è detto sugli aspetti più inquietanti dell’Islam, cioè di quel sapere spicciolo e sui generis che da molti anni ormai ci rimandano i notiziari televisivi.
    In questo libro infatti viene affrontato il tema dei rapporti fra uomo e donna in un contesto di radicalizzazione ideologica, vale a dire in un Afghanistan segnato da guerre fratricide e fondamentalismi. Mi auguro veramente che, al di là di quelle situazioni estreme, la religione musulmana abbia maggior rispetto del nostro sesso.
    In forma poetica, attraverso una drammaturgia fortemente impattante sul piano rappresentativo ed emozionale, l’autore (a quanto pare maschio sensibile) penetra in profondità i recessi mentali ed emotivi di una donna prostrata al capezzale del marito, eroe di guerra colpito alla testa da un proiettile ed apparentemente incosciente, oltre che immobilizzato in una specie di stato comatoso non meglio definito.
    Con due bambine piccole, nella povera casa, mentre fuori infuriano i combattimenti e l’imam lancia i suoi anatemi, la donna si prodiga nell’assistenza all’uomo, somministrando flebo e soluzioni acquose di zucchero e sale con la speranza di riportarlo alla vita. Nel farlo recita ossessivamente i novantanove nomi di Allah sgranando il suo rosario e leggendo il corano, dentro il quale è gelosamente conservata una piuma di pavone, la stessa – dice suo padre – di quello che fu cacciato dall’Eden assieme ad Eva. Fa tutto quello che deve fare una buona moglie, ma passano i giorni e la situazione non cambia.
    Paura e disperazione prendono il sopravvento ed a poco a poco la donna scivola verso una specie di follia “liberatoria” fatta di parole, confessioni, gesti innominabili e blasfemi che alla fine sortiranno nel potere magico di una resurrezione.
    A mano a mano che si procede nella narrazione emergono gli aspetti più inquietanti della cultura islamica: consuetudini, divieti e trasgressioni, dinamiche relazionali tra i sessi…, tutto codificato nelle regole di una religione che pervade ogni cosa, perfino la sfera più intima della persona, con modalità ed intensità tali che dalla parte del globo in cui viviamo suonano inaccettabili.
    Eppure, a pensarci bene, anche noi veniamo da quel mondo. Non è tanto che abbiamo girato l’angolo dell’umiliazione, anche se le nostre tinte, rapportate a quelle della realtà islamica più fondamentalista, ci sembrano meno forti, meno fosche e crudeli.
    Fino a non molto tempo fa anche nel nostro mondo cattolico la donna era considerata apparentata col diavolo. E’ lei che istiga Adamo nell’Eden, lei che viene bruciata sul rogo per le sue arti magiche, lei che va in moglie ad un uomo che non ha scelto e che neppure conosce e in sposa al marito del fratello quando rimane vedova, lei che deve giungere vergine all’altare ed è ripudiata quando è sterile, lei che ha l’obbligo della fedeltà e della sottomissione, lei che non ha nessuna voce in capitolo circa il destino del proprio corpo, compresa la possibilità di goderne, a meno di non essere una puttana.
    Eppure sarà proprio quest’ultima possibilità la chiave di volta della situazione sia per la protagonista che per altre donne. L’essere impure, infatti, da una parte è vero che le condanna all’esclusione sociale ed al pubblico disprezzo, ma dall’altra le pone allo stesso livello dell’uomo che compera il loro corpo. Su un corpo pagato, infatti, l’uomo non può esercitare lo stesso potere padronale che ha nei confronti della moglie, la quale gli appartiene gratuitamente. Per avere il corpo di una prostituta l’uomo è costretto a pagarlo! Anche se il prezzo del riscatto è caro ed amaro per la donna non v’è altra via di fuga quando resta sola, vedova o ripudiata perché incapace di generare o di dare alla luce solo figlie femmine. Se non lo fa la donna diventa immediatamente oggetto di stupro.
    Conoscere il proprio corpo è dunque fonte di salvezza in quella parte del mondo che è in così cattivi rapporti con la sessualità, col piacere e con l’amore, tanto che a questo preferisce la guerra.
    La guerra si fa infatti, come dice la protagonista, perché si è incapaci di amare. Ed è quella stessa incapacità che conduce alle più strane perversioni maschili, come amoreggiare con una quaglia o trastullarsi con un orfanello.
    Ma da dove nasce tutto questo? Qual è la causa prima di questa follia?
    Forse la nostra stessa conformazione fisica? La differenza formale e funzionale dei nostri organi riproduttivi? Quel membro che pronto ad eiaculare diventa come una spada nell’immaginario maschile, mentre assale la cavità femminile a cui è destinato, la caverna misteriosa dove si anniderà il suo seme per riprodurre la vita?
    Va bene, ed allora? Perché, al netto di quella differenza, far diventare la cosa una questione di potere, tant’è che da sempre, escludendo le mitiche amazzoni e le rare società matriarcali, esso è stato quasi sempre appannaggio degli uomini?
    Nel mondo delle tre grandi religioni monoteiste è proprio questo che accade. Tutto ciò che si agita sotto la luce del sole è di pertinenza del maschio, mentre ciò che avviene nel buio della dimora domestica è compito della donna. E guai ad invertire i ruoli!
    La donna non deve sapere, non deve muoversi, non deve pensare con la propria testa, non deve emergere, non deve essere alla guida di niente, non deve vivere autonomamente né affrancarsi dalla dipendenza.
    Formalmente, tra le tre, la nostra religione, con i suoi assunti dogmatici e mitologici, è certamente quella che la tratta meglio, destinandola al ruolo di madre-vergine del figlio di Dio. Un candore celestiale ed una devozione che, mi pare di capire, l’Islam le attribuisce in forma minore, mentre al contrario riserva un ruolo importante alla donna attraverso la figura della moglie del profeta, sua illuminata consigliera.
    Ma allora come si giunge alla violenza?
    Forse perché Eva è curiosa e non vuole stare al proprio posto, quello che la tradizione le ha assegnato. Guai a quelle donne che spingono lo sguardo oltre la siepe, le donne che osano, sperimentano, rischiano, competono con l’uomo per lo stesso potere. Il maschio non tollera la provocazione e quanto più è inzuppato nel mito, che tutto codifica e definisce, tanto più violentemente reagisce, sentendosi minacciato, destabilizzato, come un re che stia per cadere dal trono.
    La pace tra i sessi ha bisogno di confini, di muri: ognuno nel suo ruolo, il maschio sopra, la femmina sotto. L’atto sessuale rispecchia benissimo il modello dottrinale, e non a caso, la rivoluzione parte proprio da lì.
    E’ proprio nelle nostre religioni monoteiste che su quella differenza fisica si sono costruite ulteriori differenziazioni e discriminazioni, fino a quei radicalismi a cui oggi assistiamo nel mondo islamico.
    Infatti non accade altrettanto nel Nord Europa, dove i sentimenti religiosi sono ben diversi e le donne, più disinibite sessualmente, hanno diritti ed opportunità pari a quelle degli uomini. Lo stesso probabilmente avveniva nel mondo pagano precristiano, nel quale non erano rare le imperatrici, le donne dedite al governo o alla politica e con mansioni di potere, e le discriminazioni, quando c’erano, non avevano il sesso come scusante. Esse erano trasversali e colpivano indifferentemente uomini e donne. Esse erano tra poveri e ricchi, schiavi e liberti, dominati e dominatori.
    Perché si è aggiunto quel “peccato” agli innumerevoli peccati dell’umanità? Perché non vivere senza complicarsi la vita con costruzioni moraleggianti ed ideologismi il cui esito è solo quello di rendere tutti più infelici?
    Forse per giustificare la necessità di alzare lo sguardo oltre questa vita alla ricerca di un senso, di un creatore o solamente di qualcuno o qualcosa davanti al quale piangere per trovare consolazione ed a cui inviare le nostre preghiere: quella PIETRA DI PAZIENZA (singuè sibour), quella pietra nera o Mecca davanti alla quale almeno una volta nella vita ogni musulmano deve inginocchiarsi per raccontare le sue pene, con la speranza della liberazione, pietra che non è poi molto diversa dal muro del pianto nella religione ebraica o dall’immagine del Cristo nella nostra.
    Come dice alla donna il padre del marito, l’unico saggio in mezzo a tanti folli, verrà il giorno in cui quella pietra non ne potrà più di ascoltare il dolore del mondo e si spezzerà. Quando ciò accadrà anche la sofferenza umana andrà in pezzi. Questa è la magia della pietra. Ma la felicità esige un sacrificio. Non può esserci liberazione senza che qualcuno a cui teniamo muoia.
    E’ ripensando a quelle parole che la donna riesce a fermare il suo tormento, e non a quelle della madre o all’ indottrinamento dell’imam, che non si accorda col suo sentire così fuori dalle regole da farle credere di essere un’indemoniata. Non c’è dunque altra via che quella: prendere il suo uomo a pietra di pazienza e rovesciargli addosso tutte quelle verità taciute ed innominabili che hanno reso la sua vita un inferno.
    Certo non è facile. Le sembrerà di impazzire mentre le racconta al suo uomo, mentre si accorge di come la legge, con le sue regole assurde, cozzi con la più tangibile verità del suo corpo negato.
    Eppure, davanti a quella pietra che immobile accoglie le sue inquietudini, riesce a dire tutto: la sterilità del marito, il tradimento necessario a salvare la propria vita, quel suo solitario darsi il piacere, l’offerta di sé e del proprio amore. Non c’è nulla di più vero e santo della corporeità, nulla di più vicino all’amore di quell’essere semplicemente se stessi, nudi e denudati di ogni mistificazione moraleggiante, da ogni aggiunta mitologica o metafisica.
    E questa è una verità capace di resuscitare i morti. Colei che la pronuncia si offre in sacrificio alla mano del PAZIENTE (l’ultimo dei novantanove nomi di Allah), risvegliato dalla verità. La pietra si spezza e colei che l’ha fatta spezzare è finalmente libera.
    Quante donne ancora dovranno offrire se stesse in sacrificio alla pietra di pazienza affinché possano dirsi libere? Quanti fantasmi e false convinzioni dovranno crollare prima che le donne possano affermare il proprio valore, la propria dignità?
    Nelle nostre aree culturali le donne hanno macinato chilometri in poco tempo, contro i piccoli passi compiuti in lunghi secoli bui. Questa emancipazione è passata soprattutto attraverso il corpo, alla ricerca di spazi sempre più ampi di conoscenza ed affermazione. Corpi belli, sani, carichi di piacere da dare a se stesse attraverso le tappe della liberazione sessuale, della parità di diritti sui posti di lavoro ed all’interno della coppia, partecipando ed autodeterminando sempre più i propri destini.
    Il mondo maschile ne è risultato spesso schiacciato, ma a volte addirittura migliorato nella separazione dei ruoli meno rigida che in passato, con la scoperta di componenti femminili nel maschio e di componenti maschili nella donna, fino forse alla scomparsa della stessa definizione di genere.
    Oggi la donna sceglie, conquista, prende, dà e si nega in egual misura del suo partner. Le dinamiche tradizionali dei rapporti uomo-donna hanno subito uno scossone, e quasi un rovesciamento. Oggi le donne, se lo desiderano, possono avere un grande potere, non trovando più inibizioni o condanne morali, essendosi modificato anche il sentimento religioso.
    Agli uomini che non accettano questo stato di cose spesso non resta che la violenza per pareggiare i conti, quando avvertono il proprio fallimento ed a maggior ragione a coloro che, ancor di più dei nostri maschi abituati da tempo a questa trasformazione, si trovano colti di sorpresa dal cambiamento, come in India ad esempio, dove è altissimo il numero degli stupri.
    Quanto più c’era repressione e discriminazione, tanto maggiormente inaccettabile è l’affermazione della dignità della donna e la sua liberazione.
    Di qui le radicalizzazioni su posizioni esageratamente retrograde, fino alla recrudescenza della violenza contro le donne anche nel nostro paese, come se quel fondamentalismo che vediamo esplodere altrove avesse trasmesso, per osmosi, nel pensiero dei nostri uomini, il diritto di fare altrettanto.
    Certamente quella liberazione del corpo così necessaria e vitale qualche decennio fa ha assunto forme e dimensioni parossistiche, come un ritorno ad una dimensione pagana dell’esistere, sfrenatamente sessuale, fino all’abbattimento di quei limiti e tabù che il pensiero religioso aveva costruito in secoli di oscurantismo e di potere.
    Non deve dunque sorprendere che ci si senta legittimati a tutto, che i sensi siano sempre eccitati e sovrastimolati dagli oggetti sessuali e dalle immagini hard ovunque presenti e che si cerchi ossessivamente e senza freni inibitori il proprio piacere nelle forme e nei modi che si ritiene più consoni alla propria natura. Chi non ci riesce con le buone quel piacere se lo prende con le cattive.
    Quelle espressioni così in voga negli anni del boom della psicologia quali “l’invidia del pene” da parte delle donne e “l’invidia della capacità procreativa” da parte degli uomini oggi hanno trovato il loro compimento: l’invidia si è risolta nella possibilità delle coppie omosessuali di avere comunque un bebè al di là del proprio genere, dimostrando che ciò che conta, più che i genitali, è l’amore di cui si è capaci.
    Non emetto alcun giudizio su tutto questo. La cosa avviene con una forza dirompente tale che non ha senso porvi argini. La “corporeità” dei nostri tempi è straripante e forse, per la prima volta nella storia dell’umanità, essa diventa soprattutto veicolo di piacere più che di generatività.
    Anche se l’amore romantico e sentimentale di eterna durata è ormai cosa vecchia nella quale quasi nessuno, neppure coloro che si sposano, credono più, essendoci totalmente consegnati alla provvisorietà ed all’usa e getta, è pur vero che si deve raggiungere una qualche forma di rispetto verso l’atto sessuale in sé ed il partner con cui viene condiviso, perché esso è e resta fondamentalmente qualcosa di potente, di misterioso, di sacro.
    In esso converge e si proietta la nostra essenza più profonda, l’ombra di qualcosa che non ci appartiene fino in fondo ma che ci è stato donato perché possa essere vissuto nella pienezza dell’amore e delle sue innumerevoli declinazioni. Comunque la si pensi, il fatto che due corpi uniti nella carne possano darsi gioia, benessere, felicità, pace… fa dell’atto amoroso una cerimonia sacra perfetta, nella quale ognuno, celebrando la vita, si scopre seme di dio.
    Al contrario della guerra, che semina sempre e solo morte ed infelicità.

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