Archive for the ‘GDL’ Category
Gruppo di lettura – 27 giugno 2023
Di cosa tratta La portalettere?
Ispirata a una storia vera di cui la scrittrice trovagli indizi nelle carte di famiglia, La portalettere è sia la vicenda di una donna straordinaria sia un romanzo storico in cui eventi, sentimenti e citazioni letterarie si intrecciano perfettamente, dando vita a personaggi, storie, segreti svelati e altri che tali rimarranno sempre.
Anni 30.
Anna, conosciuto Carlo nella sua Liguria, si trasferisce, con il loro figlio di un anno, Roberto, a Lizzanello, un paese (inventato ma verosimile) del Salento.
La protagonista è estremamente convincente, realistica, imperfetta eppur eroica.
Diffidente verso un Sud che non conosce e le pare retrogrado, si concede il vezzo di intercalare frasi in italiano con espressioni in francese. Ma è anche additata da tutti i nuovi compaesani, animati dalla medesima diffidenza, e lacerata da tormenti interiori, soggetta a tradimenti che mai immaginerebbe, ma la accomunano alle altre donne.
Essere donna è, all’epoca, aderire ad un ruolo preciso che si realizza nell’essere moglie e madre accudente, estranea alla cultura e alla politica e più interessata ai pettegolezzi, spesso impietosi e falsi.
Ma Anna non sta al gioco: parla chiaro, non abbassa lo sguardo, rivendica la sua libertà e la sua indipendenza.
Scatenando lo stupore e l’indignazione nel paese, ottiene il posto, rimasto vacante, di portalettere: prima a piedi, poi in bici, lavorerà con passione, non limitandosi a smistare e consegnare corrispondenza.
Lèggerà e risponderà per chi non è capace, porterà notizie da quanti sono lontani al fronte o impegnati per lavoro in America, troverà stratagemmi per far comunicare amanti che devono rimanere incogniti, accetterà caffè anche da chi è emarginato, concedendosi una pausa se le consegne non sono eccessive.
E, giunto il momento del referendum sul diritto di voto alle donne, avrà parte attiva, militando nel partito comunista, che non tradirà nemmeno quando il marito sarà sindaco per la Democrazia Cristiana.
Ma la storia non termina qui: fonderà una casa delle donne per accogliere orfane, ragazze abusate, ragazze madri, ex prostitute: tutte povere e disperate senza istruzione.
Allestirà un’aula, camere da letto, laboratori vari, una cucina e un orto, cercando e riuscendo a rendere le ospiti scolarizzate, consapevoli del proprio valore di persone e donne, pronte a essere economicamente autonome attraverso l’apprendimento di un mestiere.
Ma questa non è solo la storia di Donna Anna, colei a cui il vino del marito è dedicato, ma soprattutto di un reticolato di amori segreti, negati, sospirati, traditi.
Amori che infiammano, lacerano, che sono fatti di carne o solo di poche parole e molti sguardi e che portavo, a volte, alla rovina.
Storie di un tempo, quando un consorte era per sempre, quando un figlio fuori dalle nozze era una vergogna, quando nell’amare una donna rischiava sempre di più, perché per lei non era previsto il perdono e si sa, i masculi, peggiorano, tradiscono, scappano, ma le mogli, se non malafemmine, sopportano, da vere matriarche.
Se non tutti sono uguali, in questo intreccio nessuno può dirsi del tutto innocente, privo di tentazioni, ideali, notti insonni fra libri, conti e impeti di passione.
Gruppo di lettura – 23 maggio 2023
Comincia nel 1992 e finisce nel 2011 la storia raccontata da Rosella Postorino in Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli). Al centro ci sono un gruppo di ragazzi che nell’estate del 1992 vengono mandati in Italia da Sarajevo, che è sotto assedio da parte delle forze serbo-bosniache. Sono diversi per età, ceto sociale, religione: alcuni non sognano altro che integrarsi nel nuovo paese e dimenticare la paura e la fame, altri pensano in continuazione a chi è rimasto in quell’inferno. Tra questi ultimi c’è Omar, che pur legato al fratello maggiore Sen, sente la mancanza della madre, e nei primi mesi a Rimini si rifugia su un albero per non stare con gli altri; dopo essere stato dato in affidamento a una coppia scappa di casa e si mette a vivere di espedienti finendo anche in prigione. Poi c’è Danilo che viene da una famiglia agiata e colta e in Italia studia legge e si riunisce con la madre e la sorella, traumatizzate gravemente dalla guerra. Il punto di unione tra questi due ragazzi è Nada, la bambina senza un dito, che spesso dice di averlo perso per la guerra per nascondere quello che succedeva a casa sua: sia Omar sia Danilo sono attratti da lei e traggono forza dalla sua presenza. Ma Mi limitavo ad amare te è anche un libro di madri: madri che si separano dai loro figli per proteggerli, madri che dopo aver visto l’orrore non ce la fanno ad andare avanti, madri adottive piene di dubbi e fragilità. Un romanzo in cui la Storia viene vista con gli occhi di giovani che al trauma della guerra hanno aggiunto anche quello dello sradicamento.
Una volta Ivo le aveva detto: Quest'idea che ci hanno inculcato, di dover essere felici, è un castigo. Chi ce l'ha inculcata?, aveva chiesto Nada. Sei figlio di una prostituta, sei scappato da una guerra, ma chi ti ha inculcato a te l'idea di dover essere felice? Aveva riso anche lui. Boh, un certo cinema, aveva detto, certe storie. E quella cazzo di Costituzione americana. Lei si era piegata in due dalle risate. Non abitiamo in America, gli aveva risposto.
Gruppo di Lettura – 26 aprile 2023
Già, perché in questo museo (cui in copertina vediamo esposti gli oggetti) non troviamo altro che i simulacri di tutte quelle promesse fatte e non mantenute, oggetti evocativi di quel dolore che coviamo dentro di fronte a delusioni subite, emblemi di ferite che non si rimarginano, in grado di far riaffiorare nei visitatori i traumi che avevano rimosso e che prima di varcare la soglia del museo giacevano nascosti negli anfratti polverosi delle loro menti. Volete un esempio? Che cosa potrebbe rappresentare un velo da sposa? «Ah, l’amore, un’orrenda colpa!», disse chi rinchiuse il suo cuore in un forziere. Provate a immaginarvelo, ve lo dico? Una promessa di nozze mancata. E così via, affogate anche voi nel mare delle promesse infrante immergendovi in questa lettura, ricordandovi però di riemergerne.
Il resto della narrazione (la maggior parte della trama, per la verità), verte sugli avvenimenti storici narrati con perizia di dettagli dalla mano dell’autrice e messi in bocca a Laure, catapultata dal suo museo di Parigi alla Praga del 1986, nel tetro panorama del regime sovietico, per mezzo del racconto che lei stessa svolge (con una qual certa uniformità e piattezza di tono, è lecito dirlo) a una giornalista sopraggiunta nella Ville Lumière interessata a redigere un articolo sul suo interessante museo.
Il museo che Laure ha aperto a Parigi, nel quartiere di Canal Saint-Martin, è unico al mondo. Vi sono esposti gli oggetti più disparati, portati lì da diversi donatori per raccontare la loro storia sospesa: sono infatti simboli di promesse infrante.
Per Laure, padre inglese e madre parigina, quel luogo è praticamente l’unica ragione di vita. Perché l’esistenza di Laure è rimasta impigliata in un luogo e in un tempo lontani, nella Praga del 1986. La sua vita attuale è essa stessa il frutto di una promessa infranta. L’incontro con la giovane May, giornalista senza troppi scrupoli, inizialmente è seccante per Laure.
Non ha alcuna intenzione di svelare quel mondo che tiene sepolto dentro di sé da decenni. Eppure, a poco a poco, grazie a quella ragazza impertinente il passato inizia a riemergere.
Essere trasportati nella Praga del 1986, dentro la cortina di ferro, e poi nella Berlino del 1996, nella Germania da poco riunificata, è affascinante e inquietante allo stesso tempo.
La bellezza e la vita pulsante della città boema, piena di arte e passione, sono rese cupe da un regime che tutto spia e tutto controlla. Con la violenza, se serve.
Laure a Praga arriva a vent’anni; per un’estate è la ragazza au-pair di Petr, dirigente di una casa farmaceutica e persona molto influente, e della bella e problematica moglie Eva. L’atmosfera praghese la trascina subito in un vortice, l’incontro con Tomas, giovane musicista considerato sovversivo, e con il gruppo di amici del teatro delle marionette, la travolge.
Questo amore giovane e impetuoso è descritto con tratti netti, con i colori intensi che gli si addicono. La luce del sentimento e della passione è resa ancora più intensa dal contrasto con lo sfondo: una società dove brulicano nel buio forze violente, dove tutti possono diventare delatori, carnefici, traditori.
Chi è dalla sua parte?
Di chi può fidarsi?
Ma esiste, qualcuno di cui fidarsi?
Alla fine di quell’estate Laure se n’è andata, ma Tomas non ce l’ha fatta, e lei non ha mai saputo cosa sia successo a quel ragazzo che ha amato come mai nessun uomo dopo di lui.
Ma il bisogno di sapere non si è mai esaurito. È rimasto chiuso dentro il petto di Laure, come in una delle teche del Museo delle promesse infrante.
Forse è arrivato il momento di rompere il vetro.
Gruppo di lettura – 9 marzo 2023
“Prima che si spenga l’unico occhio che mi è rimasto in vita, quello sinistro, con la palpebra che scende giù da sola, vorrei raccontare le disavventure che anni addietro mi hanno portato sulle rive di un fiume rimasto nascosto negli anfratti del creato”.
La voce di Ugolino Contarini rimesta tra i reperti di un passato irraggiungibile segnato dalla solitudine, dalla discriminazione, dalla migrazione, dal desiderio di rinnovamento, dalla ricerca di un’identità nuova dopo i traumi, dal radicamento e dal distacco dal noto. Il protagonista di Verde Eldorado passa le sue giornate relegato in una gabbia dorata col cappuccio perennemente calato sul volto a studiare il Periphyseon di Giovanni Scoto Eriugena e a struggersi segretamente per l’amica di sua sorella.
Nella società veneziana del XVI secolo avere un volto come il suo è ritenuto un orrore da nascondere.
Estromesso dalle attività di famiglia, verrà imbarcato per volere del padre nella spedizione di Sebastiano Caboto alla volta delle Isole Molucche con il compito di redigere il diario di bordo di un’impresa che rivelerà esiti imprevisti.
A stravolgere i piani, la fascinazione per i racconti dei pochi sopravvissuti al viaggio di Juan Díaz de Solís che indurrà il Piloto Mayor a tradire gli accordi con la Corona di Spagna per addentrarsi nel Río de la Plata e risalire i fiumi Paranà e Paraguay.
Proprio allora, tra massacri e rapimenti a opera degli indios, una svolta sancirà la rinascita di Ugolino nel mondo ignoto dei guarenyes. La salvezza grazie al suo volto deturpato gli varrà il riconoscimento di Kulumanè-Jajay-Karai (“uomo che i Karai hanno salvato la vita dalle fiamme”).
Valeria Gramolini
Ci sorprende piacevolmente ancora una volta lo scrittore argentino ospitato più volte dal gruppo di lettura di Monte Porzio. Questa volta il "ritorno" nel paese natale ha come pretesto una fase della storia mondiale segnata da conseguenze decisive per l'umanità: la scoperta e l'esplorazione delle Americhe del Sud.
In questo racconto ADRIAN BRAVI indossa i panni di un ragazzo veneziano sfigurato da un incendio, il quale viene fatto imbarcare dal padre, commerciante di tessuti, su una nave in partenza per le Indie. Si tratta niente meno che della avventurosa spedizione di Sebastiano Caboto lungo le rive del Paraguay prima e del Rio della Plata poi, alla ricerca del mitico Eldorado. Infatti anche lui, come Colombo, convinto di andare ad Est, si ritrova invece ad ovest, dove incontra diverse tribù di indios, tra le quali una dedita al cannibalismo.
Sulla base dunque di fatti storici reali e documentati avvenuti nel 1527 l'autore ci fa rivivere attraverso gli occhi di quel giovane navigatore, il cui compito è quello di registrare gli avvenimenti sul libro di bordo, tutto il pathos delle grandi avventure, fatte di curiosità ed intraprendenza, coraggio e paura…e una buona dose di follia, come ogni viaggio verso l'ignoto. Con Ugolino torniamo quei ragazzi che lessero L'isola del tesoro o I viaggi di Gulliver, ma anche riflettiamo sul valore duplice di quelle imprese grandi e sconsiderate allo stesso tempo, le quali hanno reso il mondo più piccolo mentre concorrevano alla distruzione di popoli che non potevano competere con l'avidità ed i mezzi dei conquistatori.
Il confronto tra le conoscenze, le credenze, i valori, i modi di vivere e di rapportarsi alla natura dei nativi e quelli degli esploratori solleva domande e reazioni impreviste, e le mille congetture che diversità ed incomprensione comportano. La nudità, la semplicità, la mancanza di gerarchie, e la quasi totale condivisione dei beni o la mancanza dei ruoli sono catalizzatori di simpatia, anche dopo lo scotto dell'antropofagia rituale e a dispetto della superiorità culturale dell'uomo bianco.
Eppure chi l'ha detto che questi ultimi non abbiano qualcosa da imparare dai primitivi? Si può dire con certezza che un linguaggio striminzito che usa lo stesso termine per indicare pesce e mare, o una rappresentazione del divino che si identifica con la natura siano davvero poca cosa rispetto alla complessità dei linguaggi evoluti e ricchi di definizioni o alle sofisticate teorie teologiche-filosofiche del più volte citato PERIPHISEON di Scoto Eurigena, unico ed ultimo legame tra Ugolino e la sua terra natale? Sono queste le considerazioni che emergono dalla lettura del libro, considerazioni basilari quando di deve e si vuole scegliere dove sia meglio vivere, le stesse che formula Ugolino al momento di valutare se la sua patria sia Venezia, dove il suo aspetto orripilante deve essere nascosto da un cappuccio, oppure quella dove, proprio grazie a quel corpo deturpato e diversamente valutato, acquista un ruolo di prestigio, anche se immagina facilmente ciò che di lì a poco accadrà a quelle genti. Ed è una domanda che molti altri si pongono ogni giorno in questo mondo dove ogni incontro tra diversi può generare cose tanto meravigliose quanto orribili.
Gruppo di lettura – giovedì 9 febbraio 2023
Marco Carrera è paragonato al colibrì per le sue dimensioni, dal momento che egli fino ai quattordici anni rimane piuttosto piccolo di statura, ma anche e soprattutto perché, nelle varie circostanze e malgrado lo svolgersi degli eventi, il suo rapportarsi alla vita assomiglia a quel battito d'ali col quale quel piccolo uccello riesce a mantenersi in equilibrio.
“Per tutta la sua infanzia Marco Carrera non si era accorto dei contrasti tra sua madre e suo padre… e solo per questo la sua infanzia era stata felice. Anzi, di più… li aveva perfino presi a modello, sì, e imitati, strutturandosi in un contorto miscuglio di caratteristiche mutuate dall'uno e dall'altra – le stesse che nel loro tentativo di unione si erano dimostrate inconciliabili”. Da protagonista, Marco è il punto di vista e il riferimento, la chiave di lettura degli eventi che di volta in volta interessano i membri della sua famiglia, che egli, responsabilizzandosi e colpevolizzandosi, prende in carico, anche pretendendo di condizionare le storie e la storia. Così, nella sua mente, non solo quella dei genitori, anche la vita della sorella e poi della moglie, della figlia… senza dimenticare quella di Luisa, il suo amore mancato e imperituro, sembra debbano dipendere dalle sue scelte personali, di lui che vorrebbe ergersi come un gigante a fermare la grande frana della vita, salvo poi doversi inevitabilmente lasciar travolgere scoprendo forze contrarie fino a quel momento imprevedibili.
Le sequenze della storia sono narrate in disordine, accostate per continuità logica più che temporale e il lettore è chiamato a ricostruirne, insieme alla successione cronologica, le connessioni e le dinamiche tra casualità e causalità, interpretando motivazioni e cogliendo relazioni.
Nel farlo si ha modo, ovviamente, di considerare gli eventi e le scelte della propria vita e di passare dal personale al generale. Ed è questo che fa di una qualunque storia di una famiglia borghese del secondo Novecento nel passaggio al terzo millennio il capolavoro: la capacità di trattare la vita in generale e di quel filo invisibile che ad essa ci tiene legati, il filo immaginario che condiziona la figlia Adele, il filo conduttore di ogni nostra vita, metafora della motivazione e delle ossessioni che conducono la nostra esistenza.
La lettura del romanzo coinvolge e avvince con discrezione e leggerezza.
La riproduzione cinematografica, pur rimanendo fedele alla minuzia delle citazioni, vive di vita propria in un'autosufficienza che non fa rimpiangere quanto è stato eliminato dal dovere della sintesi.
Diana D'Aulerio
L’ultimo libro pubblicato in Italia, dalla casa editrice Orme, della pluripremiata Annie Ernaux, è la storia di una donna che, attraverso i volti di altre donne della sua vita, zie, nonne, la sua stessa madre, si scontra contro la dura realtà della diversificazione dei ruoli maschio/femmina e che impara a criticare solo quando sarà inutile ogni tentativo di ribellione. Perché “è la vita, bella mia” si sentirà dire dalla suocera, dalle amiche già sposate e, infine, se lo ripeterà lei stessa nell’interminabile flusso di coscienza che sta alla base della narrazione, fino a farlo diventare un mantra, per ricordarsi che non c’è scampo.
Chi è avvezzo alla scrittura della Ernaux, riconoscerà dalle prime battute lo stile asciutto, cristallino, scabro ed essenziale, senza orpelli retorici: riconoscerà la fredda lama della sua penna chirurgica.
Scritto in prima persona, una (auto)biografia di una donna cresciuta in una famiglia sui generis dove i ruoli tradizionali sono praticamente capovolti
“Mia madre è la forza e la tempesta, ma anche la bellezza, la curiosità per il mondo, l’apripista sulla strada verso il futuro, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno. (…) Si porta in scia un uomo dolce e trasognato, dalla parlata pacata (…) Il mio, di padre, la mattina non esce, e se è per questo nemmeno il pomeriggio. Resta a casa. Sta al bancone del caffè drogheria, lava i piatti, cucina, sbuccia le verdure.”
L’immancabile caffè drogheria, presente nelle altre opere autobiografiche della Ernaux, il voler sottolineare la specificità del padre “il mio, di padre” rivela un non celato paragone con i padri delle altre sue amiche, che invece portano i pantaloni del dominio domestico, non si occupano di faccende e nel weekend si concedono il bicchierino fuori casa.
Non ci mette molto a capire, osservando i padri delle altre amiche e gli uomini della sua famiglia (tranne sue padre) che: “ in me si fa largo confusamente la convinzione che quasi tutti i guai delle donne siano causati dagli uomini”.
Siamo negli anni Quaranta del Novecento e anche qui, senza indicare le date, si annusano le atmosfere, le usanze di un piccolo mondo di provincia ormai scomparso.
La madre le consiglia di studiare, di diventare qualcuno, “essere attrezzate per la vita”, ma la protagonista narrante imparerà che non basta la cultura e un buon lavoro a proteggersi da tutto “incluso il potere degli uomini”.
Indottrinata per dodici anni sulla devozione della donna per la sua futura famiglia e il suo futuro marito, quando poi trova l’amore è già pronta al sublime sacrificio che le impedirà di dedicarsi nei tempi regolari al concorso per insegnanti che tanto agognava da ragazza. La vita di una casalinga madre è una fatica di Sisifo senza gloria alcuna, un continuo e infinito sacrificio, una catena di sofferenza con ben poche soddisfazioni. Una storia in cui si rispecchiano adesso ben poche donne, per fortuna, ma che fa riflettere su quanta strada le donne hanno fatto dagli anni Settanta ad oggi. Almeno in alcuni Stati del mondo.
Contributo di Valera Gramolini
Mi ha fatto uno strano effetto leggere questo libro di Annie Ernaux, che ho conosciuto solo perché i tg ne hanno parlato avendo vinto il Nobel per la letteratura 2022. Scopro così che è autrice molto conosciuta ed amata non solo in Francia, di cui ha raccontato il clima socio-culturale di più di mezzo secolo, avendo ottantadue anni anni e scritto molti libri, tra i quali questo forse non è il migliore, stando ai giudizi della critica, che invece raccomanda "Il posto" e "Gli anni". Comunque pare che le tematiche siano piuttosto ricorrenti e che i diversi romanzi facciano sempre in qualche modo riferimento alla sua storia personale, la quale è la storia di quasi tutte le donne, alle prese con le questioni proprie del nostro sesso: i condizionamenti sociali e familiari alla differenziazione tra i ruoli maschili e femminili, le problematiche proprie del nostro corpo, vale a dire contraccezione, maternità, aborto, piacere e quelle della psiche, cioè i conflitti interiori che insorgono nella battaglia per l'affermazione della nostra autonomia ed indipendenza. Tematiche che in questo libro sono tutte presenti e che si riferiscono ai primi 35/40 anni della vita dell'autrice, a cominciare dalle anomale figure genitoriali, alla solitudine propria dei figli unici, lei, così diversa dalle proprie coetanee, e poi l'affacciarsi del desiderio amoroso e della ambigua spinta a cercare un partner, ora voluto ora rifiutato, la volontà di emergere ed affermarsi culturalmente e professionalmente e la difficoltà a farlo, per l'ingabbiamento nei ruoli, la vita di coppia soffocante e logorante, a cui si aggiunge una doppia maternità, una casuale ed una desiderata, non per una particolare attitudine ad essere madre, troppo esaltata dal mondo circostante, ma quasi come strumento di affermazione di un potere a cui il maschio non può accedere. Pur nella sofferenza di una battaglia solitaria ed incompresa, costretta ad una vita domestica a causa della quale è costretta a molte rinunce, la protagonista, cioè Annie, esce vincente, riuscendo alla fine ad incarnare il proprio vecchio sogno, e a conciliarlo parzialmente con una relazione coniugale in equilibrio perennemente instabile.
Lo strano effetto di cui parlavo all'inizio si riferisce al fatto che questo libro mi ha richiamato alla memoria cose alle quali non pensavo più da molto tempo e che erano invece oggetto ricorrente di discussioni ed approfondimenti durante gli anni di università e di battaglie femministe. Le quali naturalmente non si sono acquietate e giustamente, visti i tempi. Penso che il premio Nobel a questa autrice sia stato conferito più a sostegno della giusta rivendicazione dei nostri diritti in un mondo sempre più misogino e violento nei nostri confronti che per la qualità letteraria della sua scrittura, che comunque trovo molto interessante, così asciutta, scarna, precisa, vera e immediata da giungere davvero a tutti. Un premio al suo lavoro e alla carriera, realizzata attraverso una tenacia che a molte donne manca, e quindi un incoraggiamento a difendere quanto si è ottenuto, e non solo in quei paesi dove le donne non possono mostrare il viso né occupare i banchi di scuola.
Libro in lettura per il Gruppo di lettura di Monte Porzio, reperibile all' l'edicola Manu da oggi fino al 9 febbraio, giorno del nostro prossimo incontro alle 21, nei locali della nostra biblioteca e poi sempre a disposizione. Consigliato assolutamente a tutte le donne che fanno fatica a volersi bene!
Mentre la maggior parte delle persone ama uniformarsi alla massa, rassicurati dalla condivisione di qualcosa dai grandi numeri, il barbiere Rodolfo, demotivato dalla routine di una vita senza eccellenze, coltiva il sogno di distinguersi. Passa dunque in rassegna e tenta, organizzandosi senza badare a spese, alcune possibilità. Esplora i diversi mondi delle minoranze alla ricerca della sua, ma senza successo, finché finalmente anche lui trova un piccolo mondo a cui appartenere. Ma si tratta di vero cambiamento?
Con grande acume ed ironia Diego Marani, direttore dell'istituto italiano di cultura a Parigi ed autore fecondo, descrive i contorcimenti mentali di un uomo alla ricerca di una dimensione personale da contrapporre alla imperante massificazione. Un piccolo libro scritto in una lingua bella ed elegante.
Commento di V. Gramolini
Sinossi.
Un romanzo sul cupio dissolvi di due uomini prepotenti, sulla vendetta che non ripristina giustizia, sul ciclo inesorabile e ripetitivo dell’oppressione di una provincia emarginata che non è altro che l’immensa, isolata provincia in cui tutti viviamo.
«Nel buio non riusciva a vedere buche, radici e rocce che spuntavano dal terreno. Cadde per tre volte con la faccia nel fango, e per tre volte si rialzò per continuare a correre, col vestito lacero e ricoperto di terra, il viso nero e incrostato di fango e sangue.»
Nella cameretta di Samantha spicca appeso al muro il poster di una donna lupo, «capelli lunghi, occhi gialli, un corpo da mozzare il fiato, gli artigli al posto delle unghie», una donna che non si arrende davanti a nulla e sa difendersi e tirare fuori i denti.
Samantha invece, a 17 anni, ha raccolto nella vita solo tristezze e non ha un futuro davanti a sé. Non è solo la povertà della famiglia; è che la gente come lei non ha più un posto che possa chiamare suo nell’ordine dell’universo. Lo stesso vale per tutti gli abitanti di Colle San Martino: vite a perdere, individui che, pur gomito a gomito, trascinano le loro esistenze in solitudine totale, ognuno con i suoi sordidi segreti, senza mai un momento di vita collettiva, senza niente che sia una cosa comune. Sul paese dominano, rispettivamente dall’alto del palazzo padronale e dal campanile della chiesa, Cicci Bellè, «proprietario di tutto», e un prete reazionario, padre Graziano. I due si odiano e si combattono; opprimono e sfruttano, impongono ricatti e condizionamenti.
Cicci Bellè prova un solo affetto, per il figlio Mariuccio, un ragazzone di 32 anni con il cervello di un bambino di 5; padre Graziano porta sempre con sé il nipote Faustino, bambino viziato, accudito da una russa silenziosa, Ljuba. Samantha non ha conforto nel ragazzo con cui è fidanzata, nemmeno nei conformisti compagni di scuola; riesce a comunicare solo con l’amica Nadia. Tra squallide vicende che si intrecciano dentro le mura delle case, le sfide dei due prepotenti e i capricci di un destino tragico prima abbattono la protagonista, dopo le permettono di vendicarsi della sua vita con un colpo spregiudicato, proprio come una vera donna lupo; un incidente, un grave lutto, un atto di follia, sono le ironie della vita di cui la piccola Samantha riesce ad approfittare.
La penna di Antonio Manzini, che ha descritto un personaggio scolpito nella memoria dei lettori come Rocco Schiavone, raffigura individui e storie di vivido e impietoso realismo in un noir senza delitto, un romanzo di una ragazza sola e insieme il racconto corale di un piccolo paese. Una specie di lieto fine trasforma tutto in una fiaba acida. Ma dietro quest’apparenza, il ghigno finale della donna lupo fa capire che La mala erba è anche altro: è un romanzo sul cupio dissolvi di due uomini prepotenti, sulla vendetta che non ripristina giustizia, sul ciclo inesorabile e ripetitivo dell’oppressione di una provincia emarginata che non è altro che l’immensa, isolata provincia in cui tutti viviamo.
Incontro con Even Mattioli – 7 ottobre
Negli undici racconti brevi che compongono il libro scorrono frammenti di vita fatti di stupore, di legami, di ingiustizie che fanno male, di paure che condizionano una vita, di gente insopportabile, di parole che escono da una radio spinte dall’urgenza di essere dette.
E poi, ancora, storie di dolore e parole troppo rimandate, di telefonate inaspettate a tratti sconvolgenti, di colpi di sonno e cinghiali su una strada verso il mare, di insegnanti che sprecano occasioni, di ospedali e cimiteri come mete per il fine settimana, di incubi notturni con risvegli decisamente migliori e di storie che non sarebbero mai dovute ricominciare.
Undici racconti dove alle “cose” che succedono nelle vite delle persone si aggiungono quelle che accadono dentro le persone, tra i pensieri, i silenzi e i ricordi di un passato ancora presente. Undici storie per rabbia e altre emozioni, raccontate in equilibrio (precario) tra leggerezza e profondità, ironia e introspezione.
25 ottobre – Gruppo di lettura
Una donna bellissima con tanti sogni da rotocalco nella testa e in periodo di guerra. Questo è stato il motivo per cui la continentale ha scelto di sposare un ufficiale dell'esercito, mutilato e siciliano.
Credeva di sposare un uomo benestante e di trovare un paese bellissimo, ordinato, con un benessere diffuso e ha trovato un bel paesaggio, sì, ma in mezzo a miseria, povertà in cui la città è invasa da macerie e le campagne da gente povera e bambini sporchi e coperti di stracci e la famiglia di lui che non stava male, ma neppure troppo bene.
Da questi sogni delusi è nato l'odio verso quella terra, l'invidia per chi è rimasto al Nord e conduce una vita molto differente e più agiata, e la voglia di rivalsa che si esprime cercando di manipolare la figlia sui suoi pensieri. La bambina è sveglia e vivace, adora la madre, ma gioca con i ragazzi di strada, accetta dalla madre le punizioni, l'essere segregata e sorvegliata, ma, pian piano, cresce in lei la voglia di libertà, che poi la porterà anche a scelte sbagliate. Ma, ciò nonostante, diventerà la scrittrice che ha scritto tutto ciò.
Una menzione a parte per i capitoli che parlano del collegio. (Peggio di questo l'ho trovato in un libro molto duro e poco conosciuto in Italia che si intitola Per una fetta di mela secca e parla di bambini tolti alle famiglie, messi in istituti di suore e poi dati in affidamento come servi, il tutto in un passato non troppo remoto nella civilissima Svizzera.) Quelle suore, proprio poco caritatevoli!
E' un libro con passaggi duri, francamente certe volte verrebbe voglia di strozzare la continentale, ma è soffuso di un'ironia che riesce ad alleggerire le situazioni facendone un racconto vivace, molto godibile. E si porta in evidenza le incomprensioni del rapporto Nord/Sud che, ancor oggi, non sono del tutto risolte.
La scrittura è scorrevole, di lettura piacevole. Un bel racconto siciliano.
9 settembre incontro con l’autore
Un dialogo tra due bambini da sopra a sotto il mare: Leonardo in una nave da crociera e Akanke dal fondo del Mediterraneo.
Questo lo scenario in cui si svolge la storia raccontata da Mauro Riccioni, nel suo primo romanzo da oggi disponibile online e nelle principali librerie delle Marche: "Lettera di una bambina in fondo al mare".
Akanke è un’africana: ha conosciuto la miseria, sopportato lo sfruttamento, sfidato il deserto e affrontato la traversata del Mare Nostrum a bordo di una carretta del mare. Lì ha trovato la morte.
Narra questa storia a Leonardo, giovane occidentale in vacanza, per spingerlo a pensare e, magari, a raccontare al mondo una silenziosa tragedia che ogni giorno si ripete a poche miglia marittime dalla nostra quotidianità.
E Leonardo saprà rispondere ad Akanke.
____
Mauro Riccioni è un avvocato, appassionato di politica e archeologia, amante della lettura e della scrittura, cultore della bellezza e nemico delle ingiustizie.
Nelle Marche, dove vive e lavora, ha ricoperto cariche politiche di vertice e amministrato diversi enti locali. Tra questi il Comune di Gagliole, dove ha rinunciato all’indennità di Sindaco devolvendola ai servizi sociali del piccolo Comune, in un’esperienza di cui si è parlato molto che ha raccontato nel libro Il Sindaco Gratis (Dissensi, 2016).
"Lettera di una bambina in fondo al mare" è il suo romanzo di esordio nella scrittura narrativa. Il tema della solidarietà verso i più deboli quello che lo anima da una vita.
Appunti incontro con Alessandro Moscè
I MATTI DI UNA VOLTA
Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022) di Alessandro Moscè
30 luglio 2022 CI.B.O.
Alessandro Moscè
Prima di tutto voglio dire che ho trovato Monte Porzio davvero accogliente. Sia da un punto di vista architettonico che urbanistico è un paese ben tenuto, con un centro storico curato e una piazzetta circolare straordinaria, come quelle di una volta. Non è affatto scontato che in un piccolo centro si organizzino degli incontri con l’autore e si possano presentare libri, cose che vi assicuro sono difficili anche a Roma e a Milano.
Sapete bene che gli italiani sono refrattari alla lettura, soprattutto di testi letterari, che evidentemente sono impegnativi più dei libri à la page scritti da calciatori, cabarettisti, attori ecc. Mi occupo di letteratura da molti anni e ho rinunciato a fare l’avvocato, anche se sono laureato in Giurisprudenza, proprio per dedicarmi alla scrittura.
Faccio il caporedattore in un giornale di provincia e scrivo come freelance in vari quotidiani, quali “Il Foglio”, dove recensisco libri specie di poesia. Ho pubblicato volumi di poesia, di narrativa e di critica letteraria. Le case dai tetti rossi è a tutti gli effetti un romanzo, che però non nasce dalla fiction, ma da un luogo evocativo realmente esistito: l’ex manicomio di Ancona.
David Guanciarossa
Prima di presentare il libro di Alessandro Moscè mi sono informato sulla gestione dei vecchi manicomi di cui non si conosce quasi nulla. Ho letto un saggio del docente universitario Roberto Vecchiarelli, Cronache dal manicomio, ambientato nell’ex manicomio di Pesaro: un saggio, non un’opera di fantasia, abbastanza impegnativo, con racconti complessi.
Ho appreso che la Legge Giolitti del 1904 regolarizzava gli ingressi e le uscite dal manicomio. Legge che è rimasta valida fino all’avvento della Legge Basaglia del 1980.
Come si entrava in manicomio? Era abbastanza semplice: la segnalazione di un medico, di un sindaco o di un agente di polizia, in generale di un funzionario pubblico, dichiarava la non stabilità mentale o il pericolo per sé e per gli altri del soggetto indicato, consentendo così che quest’ultimo venisse accolto.
Ben presto, in manicomio, il malcapitato diventava solo un numero. Si usciva “orizzontalmente”. Solo se si riscontravano dei miglioramenti e “fuori” c’erano parenti che potevano ospitare il manicomiato, il “miracolo” poteva avvenire, altrimenti si era condannati tutta la vita all’interno di quelle orrende strutture.
Entravano in manicomio gli omosessuali, gli alcolisti, gli epilettici, la donna che “faceva la preziosa a letto”, chi era affetto da malattie oncologiche.
Mi sono ricordato cha nel nostro gruppo di lettura avevamo letto un romanzo del pesarese Paolo Teobaldi: Il mio manicomio. Rammentavo poco di questo testo, ma imbattendomi nel saggio di Vecchiarelli mi sono tornate in mente le due porte del manicomio di Pesaro, che Teobaldi descrive molto bene: “la porta del morto” e la “trappola” o “la porta del matto”. Una porta nascosta era dipinta come il muro. Chi entrava in questa porta era giudicato un “matto pericoloso”. Veniva condotto con la carrozza lungo la via e spesso si agitava. I familiari fingevano di assecondarlo, gli facevano fare qualche passo e quando si trovavano vicino alla porta lo spingevano dentro. Gli infermieri lo prendevano in custodia mettendogli la camicia di forza. Il manicomio era una prigione a tutti gli effetti, come si può ben capire.
Alessandro Moscè
Le case dai tetti rossi: perché questo titolo, mi chiedete? Da Posatora, che è un quartiere di Ancona posizionato in alto, se negli anni Sessanta e Settanta si osservava la città verso il quartiere del Piano, si vedevano degli stabili che sembravano casermoni, rigorosamente con i tetti rossi.
Si era soliti dire ai bambini: “Se non fai il bravo ti mandiamo ai tetti rossi”. I miei nonni materni abitavano in corso Carlo Alberto, a pochi passi dall’ex manicomio di Ancona, appunto dalle “case dai tetti rossi”. Sono stato sempre suggestionato da questo luogo di contenzione perché non capivo il significato della reclusione e perché mi dicevano di stare alla larga dal cancello di via Cristoforo Colombo, di non fissare i pazienti, chi era oltre quelle inferriate, insomma di girare al largo.
Nell’estate del 1975 ero a passeggio con nonna Altera e non c’erano tutti gli agglomerati di adesso. Rimasi colpito da persone che gironzolavano tra i padiglioni e un porticato, i quali avevano, stranamente, degli indumenti molto più lunghi rispetto alla lunghezza delle braccia. Ciondolavano e la loro postura mi faceva sorridere. Da adulto ho capito che quella specie di pigiamoni non erano altro che camicie di forza. Se il matto dava in escandescenza bastava legare le estremità dietro la schiena.
Per scrivere il romanzo ho compiuto un lavoro preparatorio di due anni. Non sono né un medico né uno psichiatra. Se si trattano taluni argomenti è necessario conoscere le basi del lavoro. Ho letto testi di psichiatria e contattato un amico psichiatra, il primo a leggere Le case dai tetti rossi e a darmi i consigli necessari. Il manicomio di Ancona veniva considerato un ricettacolo da parte dei cittadini, ed era così anche nelle altre strutture, in tutta Italia.
Il romanzo non vuole mettere l’accento sul manicomio per quello che è stato, tanto che affronta soprattutto i grandi cambiamenti della psichiatria. Non l’avrei scritto se i manicomi non fossero stati chiusi, se quei cancelli non fossero stati aperti una volta per tutte.
Il professor Guido Lazzari non è altro che la trasfigurazione del dottor Emilio Mancini, per tanti anni il direttore del manicomio di Ancona. Si rese conto che se le persone parlavano tra loro, se riuscivano a comunicare i sentimenti, se lavoravano continuativamente nell’atelier, se d’estate camminavano sulla spiaggia di Palombina, stavano meglio. L’aprire questa città separata da tutto il resto di Ancona significava fare un notevole passo in avanti. Le nuove disposizioni le aveva già pianificate il grande psichiatra Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia. Ad un certo punto, con un colpo di genio, Lazzari dice che le pareti del manicomio si debbono tinteggiare, che quei colori grigi non vanno bene, che bisogna “avvalersi” di colori caldi.
Le finestre, anche se avevano le inferriate, dovevano rimanere aperte. Venne pretesa la massima attenzione all’igiene personale. Non più camerate da quindici, venti persone, ma stanze con al massimo sei individui. Il personaggio al quale sono più affezionato, il giardiniere Arduino, intuisce che anche le piante e i fiori sono decorazioni utili a migliorare l’umore. Regala mazzi di rose alle donne, appositamente confezionate, lasciandole in fondo ai loro letti.
David Guangiarossa
Tra i protagonisti del romanzo cito l’intransigente caposala suor Germana; Nazzareno che raccontava le barzellette ed era un balsamo per tutti i ricoverati; l’uomo giraffa che temeva di essere inseguito dai batteri; Carlo che voleva assomigliare al pirata Sandokan; Franca che sognava i nazisti, di notte, avanzare marciando verso le camerate e che si proteggeva ammassando materassi e mobili dietro la porta; Adele che ricordava di aver intravisto Mussolini a Fabriano, in incognito; Giordano che tifava per la squadra del Napoli e si immedesimava nel suo capitano Antonio Juliano. Sono tutti realmente esistiti? L’impressione è che la sua scrittura voglia in qualche modo redimere i pazienti, salvarli.
Alessandro Moscè
I protagonisti del romanzo sono il trasmutamento di persone che vivevano nei manicomi italiani. È vero, in un certo senso c’è questo tentativo di aprire un orizzonte, visto che si intuiva prima della promulgazione della Legge Basaglia che fosse necessario ridare identità e dignità ai ricoverati nei manicomi. Ritengo questa legge la più grande conquista sociale dell’Italia del secondo dopoguerra, come lo furono anche i referendum sul divorzio e sull’aborto e lo Statuto dei Lavoratori.