GdL – incontro 24 gennaio
Questo racconto vero, dal passo di romanzo, intreccia storia del Novecento e lessico famigliare, tragedia e speranza: un’avventura nel tempo e nella memoria.
Lajos è un colto ingegnere ebreo ungherese, trasferito a Roma. Maria è una giovane italiana cattolica, dalle forti passioni sociali e politiche.
La loro storia d’amore, che sboccia negli anni Trenta, è già di per sé una sfida al destino, in un Paese in cui il matrimonio tra persone di nazionalità e religioni diverse è complicato. Ancor di più lo è sotto il fascismo: con l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei la loro quotidianità di famiglia borghese e benestante, costruita con impegno a Forlì, si sgretola con impressionante rapidità.
Mentre il regime dà un giro di vite dopo l’altro, Lajos perde la cittadinanza, il lavoro, infine rischia di perdere la libertà e la vita ed è costretto a fuggire insieme alla moglie e ai tre figli di cui uno gravemente malato. Nella solidale Romagna, la rete del soccorso li indirizza presso una signora generosa, Edvige Mancini, che abita in una grande casa nel paese di Premilcuore. Solo che la signora non sa che sono ebrei.
E gli Szegö non sanno che il cognome da nubile di quella donna così gentile è Mussolini: è la sorella del Duce e ospita, al piano superiore, anche un comando tedesco. L’esistenza di Lajos e Maria e dei loro bambini si fa, se possibile, ancora più pericolosa e incerta.
E la guerra non accenna a finire. Ottant’anni dopo i fatti, a narrare questa storia incredibile su una panchina vicino a casa è uno di quei tre bambini, Alberto Szegö.
Dal suo incontro fortuito con Cristina Petit nasceranno un’amicizia sincera e questo racconto vero dal passo di romanzo, che intreccia storia del Novecento e lessico famigliare, tragedia e speranza: un’avventura nel tempo e nella memoria.
Incontro gruppo di lettura – 6 dicembre 2023
“Ogni mattina a Jenin” fa parte di quella “letteratura della Resistenza” che dopo il giugno del 1967, anno della Naksa (ricaduta) quando Israele occupa Cisgiordania, Gerusalemme est, Gaza (e il Golan siriano), infliggendo al popolo palestinese una nuova cacciata, dopo la prima del ’48. È quella letteratura che si unisce all’impegno politico per denunciare i crimini di Israele e per contrastare l’occupazione e l’imperialismo non solo in Palestina.
Abulhawa racconta il dolore delle madri che dovranno crescere i propri figli in esilio e dei padri che non potranno più tornare nei campi dei loro avi. Dolore contenuto nella domanda che il più giovane dei profughi nel campo di Jenin rivolge al più anziano, Yahya, in fuga dal villaggio di ‘Ain Hod : “Nonno possiamo andare a casa ora?” Alla quale nella Jenin del ’48 era impossibile rispondere ma che non lo sarà mai più. È un racconto che mostra al pubblico occidentale quel dramma reso ancor più duro dell’esproprio dalla propria terra, che il popolo palestinese non smetterà mai di cercare e di riavere.
Secondo la scrittrice ogni scrittore palestinese quando scrive, a prescindere da ciò che scrive, fa un atto di resistenza perché fa parte di un popolo a cui hanno cancellato il proprio posto sulle mappe; così qualsiasi espressione artistica diventa atto politico. “Ogni mattina a Jenin” vuole essere anche un atto di denuncia verso la leadership palestinese che non ha saputo stringere il suo popolo attorno al proprio destino, senza ascoltarlo, lo ha lasciato in balia dei conflitti interni tra le fazioni. Leadership spesso intenta a definire e ridefinire limiti, confini di uno Stato inesistente per compiacere le richieste dell’Altro, inseguendo una pace senza giustizia.
Così non ha saputo vedere la vita reale delle strade, delle carceri, insomma la vita di tutti i giorni sotto occupazione. Con questo libro Susan Abulhawa, palestinese che vive negli Stati Uniti, ci trasmette un grande valore che appartiene al popolo palestinese: il senso d’identità. Non è la creazione di una struttura politica a definire l’identità, non è la nazionalità che fa si che si diventi palestinesi ma l’appartenenza a quella terra significa possedere certe tradizioni, cibi, costumi, musica e soprattutto ricordi.
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo “La guerra dei Sei Giorni” e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio a Gerusalemme. Adolescente, si è trasferita negli Stati Uniti dove si è laureata in Scienze Biomediche e ha avuto una brillante carriera. Vive in Pennsylvania. Autrice di numerosi saggi sulla Palestina, ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine che si occupa dei bambini dei territori occupati.
“Ogni mattina a Jenin” è il suo primo romanzo. Bestseller internazionale è stato pubblicato in ventidue paesi.
Incontro Gruppo di Lettura – mercoledì 25 ottobre 2023
Incontro spostato da lunedi 20 a mercoledì 25
Commento in fondo all'articolo (Valeria G.)
L’ incredibile vicenda è stata scoperta proprio da Scalise, giornalista e autore di saggi e di inchieste sull’antisemitismo. Incuriosito da una piccola nota scovata ne La storia degli ebrei in Italia di Attilio Milano. “Decisi di prendermi un anno sabatico e di partire per andare a cercare documenti su questa vicenda – racconta Daniele Scalise in un’intervista Ansa-. Aiutato dalle fonti raccolte nel mondo, negli archivi del Vaticano, nelle biblioteche ebraiche negli Stati Uniti e a Roma, ho ricostruito la storia ed il contesto che era quello del precipitare del potere temporale della Chiesa.
C’è una stretta connessione tra la storia di Edgardo e il contesto. Pio IX aveva utilizzato questa vicenda non solo perché era abituato a gesti prepotenti e arroganti nei confronti delle comunità ebraiche, ma perché sentiva che la terra gli crollava sotto i pedi e voleva dare un segno della sua potenza. Lui ha vinto una battaglia, ma perso una guerra”
Con il romanzo Un posto sotto questo cielo “ho mantenuto il racconto storico e introdotto personaggi di invenzione. Mi interessava molto esplorare l’animo e la psiche di questo povero bambino, ragazzo ed uomo, la cui esistenza è stata maciullata da questa storia. Ho trovato i piccoli diari che Edgardo aveva scritto nel convento in cui è cresciuto“. Il romanzo narra, come dichiara lo stesso Daniele Scalise, una “storia tragica, infame di questo sopruso, di questa violenza, non c’è altro aggettivo per definire l’orrore di questa vicenda”..
La vicenda tocca tutto il mondo
Sulla vicenda, all’epoca, si interessano le cancellerie di mezza Europa e i giornali di tutto il mondo. È un fatto terribile, che segna il corso della storia, fa traballare l’immagine dello Stato Pontificio e suscita l’indignazione internazionale. Intellettuali e politici di tutta Europa ne chiedono il rilascio, persino Napoleone III scrive una lettera direttamente a Papa Pio IX, e come lui il Presidente degli Stati Uniti e l’Imperatore d’Austria. Ma il Papa si rifiuta di tornare sui suoi passi. Quel bambino nato in una famiglia ebrea era ormai affidato alle cure della Chiesa cattolica, visto che una giovane fantesca aveva raccontato di averlo miracolosamente salvato mentre stava per morire per colpa della febbre, battezzandolo in gran segreto.
La storia di un bambino e poi un uomo tormentato
È così che inizia la storia di un bambino diventato simbolo di fazioni opposte e di un’epoca fragile, la storia di un ragazzo solitario, di un uomo tormentato da una profonda nevrosi maniaco-depressiva. E fin quasi all’ultimo giorno la vita di Edgardo sarà quella di una pedina innocente sacrificata sulla scacchiera dei potenti. Una vicenda che ha segnato gli ultimissimi e tumultuosi anni di agonia del potere temporale del Papa e ha allungato la propria ombra fino alle polemiche sulla beatificazione di Pio IX voluta da Giovanni Paolo II.
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Valeria G.
UN POSTO SOTTO QUESTO CIELO di Daniele Scalise
E’ questo il titolo che prende il romanzo di Daniele Scalise, edito da Longanesi nel 2023 ed ispirato alla tristissima storia di Edgardo Mortara, precedentemente indagata e storicamente documentata dallo stesso autore in un saggio di 25 anni fa, edito da Mondadori e dal titolo IL CASO MORTARA. Per la verità anche altri si sono occupati della vicenda in passato, come Vittorio Messori nel libro IO, IL BAMBINO EBREO RAPITO DA PIO IX° e l’antropologo americano David Kertzer con Brunello Lotti ne PRIGIONIERO DEL PAPA RE. In ogni caso la vicenda compare per la prima volta nel libro LA STORIA DEGLI EBREI IN ITALIA di Attilio Milano, in cui figurano anche i diari autobiografici del Mortara, utilizzati da Scalise per la costruzione del romanzo.
Quello di Edgardo non è l’unico caso di rapimento di un bambino ebreo da parte della Chiesa cattolica con lo scopo “benefico” di sottrarlo alla “nefasta” influenza di coloro che avevano ucciso Cristo; ve ne furono infatti molti altri ma nessuno divenne così famoso grazie all’interessamento della prestigiosa famiglia, che poteva contare su appoggi importanti, come i sovrani di Francia e di Austria, i quali però non riuscirono a modificare il volere dell’intransigente Pio IX°.
Il bambino, strappato nel 1848 ai suoi amorevoli genitori e ai numerosi fratelli all’età di 7 anni e battezzato da piccolo da una serva perché molto malato, come poi risultò dal processo, dopo essere stato prelevato a forza dalla gendarmeria papale, fu reso inavvicinabile, pesantemente indottrinato alla “vera fede” e subdolamente plagiato dall’inflessibile e umorale papa fino a condurlo ad una disastrosa schizofrenia. Dopo mesi di segregazione ed internamento, benché pieni di premure, il bambino versava sia fisicamente che psichicamente in condizioni pietose, rifiutava il cibo, era in preda a svenimenti, disorientato tra le varie figure che si occupavano di lui, soggiogato mentalmente dal potere del Papa e totalmente confuso tra ciò che gli era stato impartito prima, in seno alla famiglia, e le idee su Dio che gli venivano inculcate poi, compreso l’odio per gli ebrei e quindi per i suoi stessi famigliari.
Con un linguaggio straordinariamente convincente e formalmente adeguato allo stile dei tempi (sembra a tratti di leggere il Manzoni), nonché estremamente accurato sul piano della ricostruzione storica di ambienti, tipologie di personaggi, scenari e figure realmente esistite accanto ad altre di invenzione, con dialoghi incalzanti e realistici, Scalise riesce a far immergere il lettore nell’atmosfera cupa ed inquietante del mondo ecclesiastico della seconda metà dell’800, quando, dopo le battaglie risorgimentali e la conquista di Roma da parte dello stato sabaudo, quel potere temporale così saldamente impugnato ed esercitato dal “Papa Re” per ben 25 anni, si riduceva drasticamente e veniva ristretto al solo Vaticano.
Ciò nonostante l’influenza di quell’uomo così carismatico sul piccolo Edgardo era stata così profonda che, neppure quando la situazione politica mutata e la maggiore età gli avrebbero permesso di scegliere il proprio destino, l’ebreo battezzato ebbe la forza di sottrarsi a quel plagio così radicalmente interiorizzato. Edgardo ripudia la famiglia originaria e decide di farsi prete, prendendo il nome di Don Pio. Risulta però totalmente inadeguato al ruolo che si è scelto. Pur preparatissimo sul piano dottrinale ed ottimo oratore è in preda a crisi improvvise rabbiose o catatoniche, privo di empatia ed altezzoso. Viene quindi spesso allontanato dai vari incarichi, compreso l’insegnamento, perché incapace di integrarsi in qualsiasi contesto e così vaga di nazione in nazione, di chiesa in chiesa, fino agli Stati Uniti, dove fa dei gran sermoni allo scopo di raccogliere fondi per costruire templi e missioni, ma sempre con un malessere così profondo da farlo sentire come già morto o sull’orlo della pazzia. Verrà infatti il momento in cui, con i lutti famigliari ed altri incontri rivelatori, sarà costretto a prendere coscienza di non aver mai scelto davvero niente nella sua vita e che la sua personalità, la sua identità è frutto di una costruzione, e che il suo costruttore come spesso accade alle vittime, è allo stesso tempo la persona più odiata ma anche la più amata. E questa sarà una verità devastante, ma infine anche rasserenante, una volta compresa.
Edgardo finisce la propria travagliata esistenza nel 1940 in un monastero di Liegi, perseguitato fino alla fine, quando un manipolo di gendarmi tedeschi, nella spietata caccia all’ebreo, si metteranno sulle sue tracce.
Come poteva non essere tratto un film da una storia così particolare ed avvincente? Lo fa Bellocchio in un’opera presentata a Cannes di recente dal titolo RAPITO, che pare altrettanto ben riuscito. Vedremo…
Intanto bisogna però anche aggiungere che la storia ci riguarda da vicino, essendo PIO IX° nativo di Senigallia col nome di Giovanni Maria Mastai Ferretti e, che provenendo da una famiglia potente, conosceva bene l’ambizione e l’arte di esercitare il comando. Ciò non di meno all’inizio del suo mandato sembrò papa liberale e riformista. Simpatizzò per il liberale moderato Gioberti, concesse la libertà di stampa e l’amnistia generale ai prigionieri politici, ma ben presto mutò orientamento. Per non contrariare il re d’Austria cattolico si rifiutò di inviare le truppe pontificie a sostegno della 1° guerra d’indipendenza. In fuga da Roma nel 1849 quando fu proclamata la Repubblica romana vi tornò con l’aiuto dei francesi e con il Sillabo del Concilio condannò Garibaldi, i garibaldini e la civiltà moderna. In seguito però si aprì alle innovazioni tecniche approvando la costruzione della ferrovia.
Durante il suo lunghissimo pontificato si occupò anche di questioni dottrinali. E’ di sua invenzione il dogma relativo all’infallibilità del Papa e quello della Immacolata Concezione. Chissà se questo fu il motivo per il quale papa Carol Wojtyla lo “beatificò”.
Non minori onori ha ricevuto dalla città di Senigallia, che recentemente gli ha dedicato uno stemma enorme al centro di quella che un tempo era conosciuta come Piazza Garibaldi e che tutti però sono soliti chiamare Piazza del duomo. E ciò benché anche molti senigalliesi, ai tempi delle battaglie per l’indipendenza, abbiano dovuto assaggiare la furia vendicativa e persecutoria del PAPA RE.
Guido Peverieri – Colleghi miei. Monte Porzio 18 agosto 2023
Evento 18 agosto 2023 con quattro audio relativi agli interventi delle figlie e nipoti di Guido.
Una bella serata e un ricordo del nostro collega.
Alcuni audio, brani letti dalle figlie e nipoti di Guido, molto ma molto brave.
Gruppo di lettura – 25 luglio 2023
Ahamed Rishcaudinarom è proprietario dell’OplàKebab. La moglie Myriam e i figli Rahmaan, Retia e Christho lo raggiungono, via mare, su di un barcone. Qualche tempo dopo, arriva anche il loro nonno.
Nella cittadina dove vivono si deve eleggere il nuovo sindaco. Uno dei due contendenti è una donna, a capo di un partito xenofobo. Rahmaan s’innamora, ricambiato, di Giulia figlia della candidata sindaca: la relazione è osteggiata dai genitori di lei.
L’attività della kebabberia procede bene, ma tutto si complica quando, a pochi metri dell’OplàKebab, apre la norcineria Viva il Maiale! Di lì a poco entrambi i locali subiscono atti di vandalismo compiuti dai misteriosi VE.R.Z.A. Sarà compito di Rahmaan e degli amici Aarif e Polpetta scoprire i colpevoli, mentre la campagna elettorale entra nel vivo.
Anche l’imam della comunità musulmana ha i suoi grattacapi: per trasformarla in moschea è in procinto di acquistare l’area dove sorge una chiesa in rovina che fa gola a uno speculatore immobiliare senza scrupoli. Un romanzo dove si ride molto seriamente.
Gruppo di lettura – 27 giugno 2023
Di cosa tratta La portalettere?
Ispirata a una storia vera di cui la scrittrice trovagli indizi nelle carte di famiglia, La portalettere è sia la vicenda di una donna straordinaria sia un romanzo storico in cui eventi, sentimenti e citazioni letterarie si intrecciano perfettamente, dando vita a personaggi, storie, segreti svelati e altri che tali rimarranno sempre.
Anni 30.
Anna, conosciuto Carlo nella sua Liguria, si trasferisce, con il loro figlio di un anno, Roberto, a Lizzanello, un paese (inventato ma verosimile) del Salento.
La protagonista è estremamente convincente, realistica, imperfetta eppur eroica.
Diffidente verso un Sud che non conosce e le pare retrogrado, si concede il vezzo di intercalare frasi in italiano con espressioni in francese. Ma è anche additata da tutti i nuovi compaesani, animati dalla medesima diffidenza, e lacerata da tormenti interiori, soggetta a tradimenti che mai immaginerebbe, ma la accomunano alle altre donne.
Essere donna è, all’epoca, aderire ad un ruolo preciso che si realizza nell’essere moglie e madre accudente, estranea alla cultura e alla politica e più interessata ai pettegolezzi, spesso impietosi e falsi.
Ma Anna non sta al gioco: parla chiaro, non abbassa lo sguardo, rivendica la sua libertà e la sua indipendenza.
Scatenando lo stupore e l’indignazione nel paese, ottiene il posto, rimasto vacante, di portalettere: prima a piedi, poi in bici, lavorerà con passione, non limitandosi a smistare e consegnare corrispondenza.
Lèggerà e risponderà per chi non è capace, porterà notizie da quanti sono lontani al fronte o impegnati per lavoro in America, troverà stratagemmi per far comunicare amanti che devono rimanere incogniti, accetterà caffè anche da chi è emarginato, concedendosi una pausa se le consegne non sono eccessive.
E, giunto il momento del referendum sul diritto di voto alle donne, avrà parte attiva, militando nel partito comunista, che non tradirà nemmeno quando il marito sarà sindaco per la Democrazia Cristiana.
Ma la storia non termina qui: fonderà una casa delle donne per accogliere orfane, ragazze abusate, ragazze madri, ex prostitute: tutte povere e disperate senza istruzione.
Allestirà un’aula, camere da letto, laboratori vari, una cucina e un orto, cercando e riuscendo a rendere le ospiti scolarizzate, consapevoli del proprio valore di persone e donne, pronte a essere economicamente autonome attraverso l’apprendimento di un mestiere.
Ma questa non è solo la storia di Donna Anna, colei a cui il vino del marito è dedicato, ma soprattutto di un reticolato di amori segreti, negati, sospirati, traditi.
Amori che infiammano, lacerano, che sono fatti di carne o solo di poche parole e molti sguardi e che portavo, a volte, alla rovina.
Storie di un tempo, quando un consorte era per sempre, quando un figlio fuori dalle nozze era una vergogna, quando nell’amare una donna rischiava sempre di più, perché per lei non era previsto il perdono e si sa, i masculi, peggiorano, tradiscono, scappano, ma le mogli, se non malafemmine, sopportano, da vere matriarche.
Se non tutti sono uguali, in questo intreccio nessuno può dirsi del tutto innocente, privo di tentazioni, ideali, notti insonni fra libri, conti e impeti di passione.